martedì 16 ottobre 2012

filosofia - Confucio




Confucio nacque, visse e operò in un periodo di profonda crisi sociale, il periodo noto come “Era delle Primavere e degli Autunni” assimilabile per certi versi a quello che l’Impero Romano doveva subire con l’Anarchia militare. Il Maestro per eccellenza del pensiero cinese nacque il 28 settembre 551 a.C. e morì nel 479 a.C. ed è quindi un quasi contemporaneo di Socrate. Come il maestro greco, anch’egli non ha mai lasciato nulla di scritto, e sono stati i suoi discepoli a trasmetterci i suoi Detti. Confucio è noto a noi occidentali soprattutto per essere un maestro anziano e magari con problemi a camminare, dalla folta barba bianca, ad esporre ad un attento uditorio le sue prediche moraleggianti. In realtà basta una veloce lettura dei suoi Detti per capire come quest’uomo fosse energico, dotato di ironia e di forza fisica: in una sua celebre frase egli sembra quasi voglia andare a colonizzare i barbari, ma viene fermato dai discepoli; in un’altra occasione egli vuole prendere il mare con una zattera e raggiungere il Giappone. Confucio è consapevole che le sue dottrine etico-politiche necessitano di una subitanea applicazione pratica e non si dispera: girovaga per la Cina col suo codazzo di discepoli di ogni risma sociale alla ricerca di un principato che lo accolga. La tradizione vuole che, arrivato nel piccolo e minacciato Ducato di Lu, le sue riforme in tre mesi diano dei frutti. I vicini, preoccupati che il principato divenisse troppo potente, spedirono al Duca 80 stupende danzatrici e 20 cavalli di razza. Il duca rifiutò le udienze per tre giorni di seguito e si disinteressò alle sorti della Corte. Confucio, depresso e amareggiato, abbandonò la reggia. Si rimise dunque in viaggio ma nessuno pareva volesse ascoltarlo: soprattutto i funzionari delle corti, sapendo di cosa Confucio e la sua troupe fossero in grado di fare, per paura di perdere il posto, dissuadevano i propri sovrani dal prenderli in carica. Confucio morì, con accanto i suoi discepoli, deluso e intristito, affermando di aver fallito la sua Missione Celeste. La consapevolezza di essere in qualche modo “mandato” dal Cielo lo assillava continuamente: l’idea che alcuni uomini avessero un Destino da compiere appare chiara nei Detti che ci hanno tramandato. I suoi discepoli raccolsero le sue affermazioni ed estratti della vita del loro Maestro e andarono formando altre comunità, fino a costruire scuole. I precetti confuciani si basano tutti su due concetti chiave dell’etica: Ren e Junzi e sulla figura dello Shi. Oltre a questi due concetti, Confucio dette avvio a quella che lui chiamava “rettificazione dei nomi” ossia utilizzare un lemma particolare con una nuova accezione per adattarla all’etica confuciana. Lo stesso termine Junzi, come sarà spiegato in seguito, è stato investito in pieno da questa rettificazione. Il Maestro è stata una figura talmente importante per la cultura cinese che i suoi concetti sono divenuti col tempo l’anima stessa dell’intellettualità orientale. 

Base della filosofia Confuciana 

Come precedentemente anticipato, per comprendere minimamente l’etica confuciana, occorre conoscere i tre concetti di Ren, Shi e di Junzi.
Ren: “Bontà”, “Umanità” ( nell’accezione morale del termine - rettificato)
Confucio insisteva molto affinché l’essere umano ottenesse l’Umanità, la suprema virtù. Attraverso la pietà filiale, l’onore, il rispetto dello stato e dell’etica, delle sue convenzioni, dei riti, della divinità, attraverso la frugalità e il senso del dovere l’uomo poteva sperare di elevarsi. Non si capisce se Confucio si considerasse detentore o meno di questa Virtù suprema. Nel cinese arcaico questa parola indicava solo il comportamento virile tipico degli eroi, poi ha subito una trasformazione morale conclusasi con la rettificazione confuciana. 
Junzi: “Signore feudale”, “Gentiluomo” ( rettificato) 
Prima dell’avvento del pensiero confuciano, il Junzi era il padrone, il sovrano o uno dei suoi feudatari. Era una nobiltà di tipo ematico, una nobiltà di sangue. Confucio introduce il concetto politico di meritocrazia: gentiluomini non solo ci si nasce, ma ci si può divenire attraverso l’Educazione. L’Educazione confuciana rientra in quello che viene chiamato Umanesimo Confuciano, ossia uno studio della letteratura, dell’arte visiva, musica, calligrafia, economia, tiro con l’arco, arte del carro, equitazione, riti e ovviamente, oratoria e politica. Il Junzi era dunque, in età imperiale soprattutto, assimilabile allo Shi ( “letterato”).
Shi: “cavaliere” ( cinese antico) “intellettuale” ( imperiale) “letterato”.
Nome indicante una classe sociale intermedia, mobile e dinamica, indicava inizialmente il guerriero a cavallo a seguito di un potente Signore feudale. Confucio regalò a questa classe un’ideologia che in poco tempo permise agli Shi di divenire la classe dirigente dell’impero unificato, e formarono la burocrazia imperiale. 

Eredità del Pensiero Confuciano nella Cina Imperiale

Come si evince dalla specificità dei lemmi, il letterato imperiale era una figura apparentemente di spicco, dotata di enormi capacità fisiche e intellettuali. La burocrazia imperiale fortemente meritocratica non era una carica irraggiungibile: a qualsiasi persona di qualsiasi classe sociale era possibile ottenere il posto se quest’ultimo superava una serie di esami di cultura generale. Questa attitudine comportò nei secoli un grande afflusso di talenti più o meno meritevoli nelle corti cittadine, tramutandosi tuttavia in una terribile malattia, quella degli “intellettuali senza lavoro”, dramma soprattutto delle ultime dinastie. I Mandarini erano quella classe dirigente che, a vari livelli, si occupava dell’amministrazione e degli uffici in ogni angolo dell’Impero. Si presupponeva dunque che un qualsiasi intellettuale fosse contemporaneamente oratore, comandante di guarnigione, agronomo, economista, giudice, sacerdote e nel tempo libero perfino letterato, magari poeta o musico. Intellettuale non erano dunque persone particolari o emotive ed emozionanti, ma coloro che rispondevano a dei requisiti di natura scolastica. La fossilizzazione del concetto di letterato e delle sue qualità è stato, a mio avviso, uno dei cardini della calcificazione della società cinese classica e non sorprende che i repubblicani e i comunisti della Rivoluzione fossero ferocemente anti-confuciani, come Lu Xun, morto nel 1936. 







domenica 8 aprile 2012

Medioevo - La Lotta alle Investiture e la Soluzione Dantesca




vescovo combattente medievale - rievocazione storica

L’Europa cristiana sta vivendo un periodo particolarmente travagliato a livello politico-sociale. Nell’Anno del Signore 1150 circa, decennio più, decennio meno, quando la Lotta per le Investiture movimentava la politica italiana ed europea, si guardava a due poteri: al Papa di Roma e all’Imperatore del Sacro Romano Impero. La questione essenzialmente era la seguente: la concessione dell'investitura imperiale dei regalia (i diritti pertinenti al regno o pubblici) agli ecclesiastici. L’Imperatore reclama il diritto, quindi, di scegliere i vescovi-conte, privilegio richiesto anche dal Pontefice. La lotta fra Papato e Impero ha inizio nel 962 quando Ottone I di Sassonia si fa incoronare Imperatore dal pontefice Giovanni XII: siglarono il “privilegium Othonis” in un momento di difficoltà del Papa, il quale accettò, con questo documento, una condizione di inferiorità: l’elezione dei pontefici necessitava del consenso imperiale. Il fatto condusse ad una crisi che nel 1075 si acuì. Gregorio VII col suo Dictatus Papae ribadì con forza il diritto dello Stato Ecclesiastico di possedere la massima libertà politica. L’Italia per la sua posizione intermedia fra lo Stato della Chiesa e il fulcro dell’Impero si ritrovò in breve tempo ad essere teatro di feroci scontri sia militari che ideologici, anche se l’eziologia del nome degli schieramenti è da ricercarsi da tutt’altra parte. Erano detti infatti Guelfi coloro che appoggiavano il Papato, Ghibellini coloro i quali erano favorevoli all’Imperatore tedesco. I nomi derivano da due casate tedesche, Welfren ( italianizzato in Guelfi) e Waiblingen ( Ghibellini) che dopo la morte di Enrico V nel 1125 lottarono per il trono dell’Impero. I due cognomi non esprimono affatto condizioni ideologiche in sé, ma per gli italiani appoggiare una fazione piuttosto che un’altra aveva un significato politico preciso: mentre i Waiblingen Hohenstaufen non erano affatto disposti a tollerare l’ingerenza della Chiesa nella politica, i Welfren erano sensibili ad un avallo morale del Papato sulle questioni secolari. La vittoria spettò al casato degli Hohenstaufen: venne eletto Imperatore Federico I di Svevia. Nell’arco del XI secolo le città del nord Italia, bramose di liberarsi dai vincoli feudali della Germania, scelsero di appoggiare il Papa per ottenere l’indipedenza. Si può dire generalmente che divennero ghibelline quelle città che speravano in una vittoria imperiale per assicurarsi il posto che si erano conquistate, mentre divennero guelfi quegli insediamenti che aspiravano all’indipendenza e ai privilegi comunali. Nel 1250 si ha la connotazione che tutti noi conosciamo, e le lotte internazionali si espansero alle fazioni cittadine e alle famiglie aristocratiche. Aderire ai Ghibellini significò dunque aspirare ad un dominio universale, mentre i Guelfi erano gelosi delle proprie autonomie e vedevano il Papa come garante dell’autonomia locale. A cavallo fra i secoli XII  e XIII assistiamo al fenomeno delle Leghe politiche di parte Guelfa o Ghibellina; nelle città le fazioni espulse tentarono sempre di riconquistare il proprio ruolo o almeno le proprie case.  Nella fine del 1200 lo schieramento ideologico si arricchì anche di pretese sociali: i Guelfi miravano a combattere le eresie, i ghibellini i privilegi del clero. Nel 1268 la parte Ghibellina entrò in crisi con la morte della dinastia Sveva, e i Guelfi ne approfittarono prendendo così le redini della politica italiana, appoggiati dal re di Napoli e ovviamente dal Pontefice. Ma il conflitto è tutt’altro che finito, perché in Toscana nacquero altre due fazioni all’interno della parte Guelfa, destinate a perdurare: i Bianchi e i Neri. Il tutto ha origine nella Pistoia del 1295 fra i Bianchi, che non escludono un ritorno dell’Imperatore, e i Neri, papalini fino in fondo. Gli schieramenti nacquero all’interno della famiglia Cancellieri fra i figli di primo letto – “I Bianchi” perché più anziani – e quelli di seconde nozze, “i Neri”. I membri più litigiosi dei due gruppi vennero esiliati in Firenze, dove i Bianchi furono accolti dai Cerchi, i secondi dai Donati. Ecco che anche in Firenze assistiamo ad un riassestamento ideologico. Dopo un inizio promettente per i Bianchi, favoriti dalla borghesia cittadina e dai nouveaux riches, i Neri presero il sopravvento grazie all’intromissione del re di Francia Filippo il Bello. Su sollecitazione papale il francese spedì un esercito a capo del quale designò il fratello Carlo di Valois. I francesi entrarono in città senza che i Bianchi opponessero resistenza: era l’anno 1301. Nell’anno successivo i Bianchi furono esiliati come di consuetudine, e fra loro vi era anche Dante, che ricopriva la carica di Priore.


Dante Alighieri, figlio del suo tempo, si inserisce nella contesa che dilaniava la sua città ed espone le sue teorie nell’opera De Monarchia, un trattato in latino diviso in tre libri nei quali espone l’apprezzabilità del potere imperiale come garante della giustizia e la legittimità di un dominio universale. Infatti per il Sommo Poeta l’Imperatore possiede un potere derivato direttamente da Dio.
Nel trattato Dante espone la doppia natura dell’Uomo, diviso fra corruttibilità ( corpo) e incorruttibilità (anima) e quindi fra felicità terrena e felicità ultraterrena: il Papa si dovrebbe occupare di garantire la felicità ultraterrena, all’Imperatore spetta di donare felicità terrena. Il primo libro (capitoli I-XVI) tratta essenzialmente sulla questione della felicità umana, sulla necessità dell’ufficio del potere imperiale e della perfezione dell’umanità qualora segua i dettami del Cielo. Sempre nel primo libro Dante affronta il tema del libero arbitrio e del peccato: egli dimostra che il bene è essere nell’Uno ( platonismo?) e che il peccato è l’allontanarsi dall’uno per cercare i molti. Nell’ultimo capitolo del primo libro Dante esprime l’idea secondo la quale l’unica Monarchia perfetta è stata quella di Augusto Ottaviano dal momento che il popolo ha vissuto in una era di pace. Il secondo libro invece (capitoli I-XI) tratta di un argomento particolare: il ruolo dell’Impero Romano nella Storia e se questa sua imposizione sulle genti fosse legittima o meno. In particolare nell’ultima parte Dante asserisce che Cristo, essendo nato sotto l’Impero Romano, ne sancì il Diritto di governare il mondo. Infine nel terzo libro (capitoli I-XV) disserta  sulla questione se l’autorità imperiale derivi dal Pontefice o direttamente da Dio: dopo una serie di sillogismi Dante confuta l’idea che il Pontefice abbia i diritti di cui si sente portatore; Egli dichiara infatti che il potere dell’Imperatore deriva direttamente da Dio, quindi i due poteri, temporale e spirituale, sono indipendenti e sovrani, ed entrambi legittimati. Pur tuttavia l’Imperatore deve essere un po’ subordinato al papa, così come la felicità terrena è subordinata a quella ultraterrena. “Cesare dunque si rivolga a Pietro con quel rispetto che un figlio primogenito deve al padre, affinché, irradiato dalla luce del padre, possa illuminare egli stesso con più efficacia il mondo.”
Dante asserisce che il Papa è di un gradino più in alto rispetto all’Imperatore, essendo il Vicario di Pietro sulla Terra. Quindi, volendo essere puntigliosi, Dante in effetti non dice forse che il Papa è superiore all’Imperatore, nonostante per tutto il resto del libro non abbia fatto altro che elogiare le pretese imperiali? Ai posteri l’ardua sentenza!

Fonti:
Enciclopedia DeAgostini “Il Medioevo”
“Civiltà” – periodico storico n.3 Settembre 2010



domenica 11 marzo 2012

Firenze - Il Calcio Storico Fiorentino

Il Calcio Storico Fiorentino affonda le sue radici nella pratica romana dell'Harpastrum, un gioco a squadre i cui fondamentali sono molto simili al rugby. Il gioco del Calcio era molto comune già nel 1400 e durante la metà del secolo la Città decise di regolamentare la gestione delle partite. Le partite erano giocate spesso durante il periodo di carnevale, anche se adesso vengono giocate lungo il mese di Giugno. Il 17 febbraio 1530 fu addirittura giocata una partita, rimasta celebre, durante l'assedio di Carlo V a Firenze, quasi in spregio alle truppe imperiali. Godette di enorme popolarità fino ai primi decenni del Settecento, quando il gioco parve perdere interesse: l'ultima partita storica fu giocata nel 1730 per Maria Teresa d'Asburgo.  Nel 1930, sotto la spinta del gerarca fascista Pavolini, il gioco riprese, anche se interrotto ovviamente durante il Secondo Conflitto Mondiale. Il moderno  Calcio in Livrea conta tre partite, due eliminatorie e la finale, nella quale i quattro quartieri storici di Firenze si scontrano senza esclusione di colpi. I giocanti sono i Bianchi di Santo Spirito, i Rossi di Santa Maria Novella, i Verdi di San Giovanni e gli Azzurri di Santa Croce. Si appartiene ad una squadra su base "familiare-etnica": di una squadra si è per trasmissione di famiglia ( i miei genitori sono di una squadra) o perché nasco in quel quartiere. 

REGOLAMENTO - riferibile al XVI secolo 

·   Teatro del Calcio sia la Piazza di S. Croce.
·   Dal giorno sesto di Gennaio fino a tutto il Carnevale, sia il campo conceduto agli esercizi del Calcio.
·   Ciascun dì verso la sera, al suono delle Trombe compariscano in campo i Giuocatori.
·   Qualunque Gentiluomo, o Signore vuole la prima volta esercitarsi nel giuoco: siasi avanti rassegnato al Provveditore.
·   Facciasi cerchio, e corona in mezzo al Teatro con pigliarsi per mano i Giuocatori; acciò dal Provveditore, e da quei, che saranno da lui a tale effetto invitati, siano scelte le squadre, e ciascuno inviato al posto, ed uficio destinatoli.
·   Nel Calcio diviso, il numero de' Giuocatori sia di 27 per parte, da distribuirsi in 5 Sconciatori, 7 Datori, che quattro innanzi, e tre addietro: e quindici corridori in tre quadriglie: tutti per combattere ne' luoghi ed ordini soliti, e consueti del Giuoco.
·   I Giuocatori siano a tal fine trascelti, e descritti nella lista, né aggiugnere vi se ne possa, o mutarne.
·   In vece de' Mancanti, prima di cominciar la battaglia, proponga il Provveditore gli scambj; I Giudici gli eleggano.
·   Escano le Schiere in campo all'ora concordata.
·   Nella comparsa i Primi siano i Trombetti, Secondi i Tamburini, poi comincino a venire gli Innanzi più Giovani, a coppie, di maniera che a guisa di scacchiere nella prima coppia a man dritta sia l'Innanzi dell'un colore, nella seconda dell'altro, nella terza come nella prima, seguendo coll'ordine predetto di mano in mano. Dopo tutti gli Innanzi vengano gli Alfieri a' quali nuovi tamburi marcino avanti. Appresso loro seguano gli Sconciatori. Dietro questi i Datori innanzi, de' quali quelli del muro portino in mano la palla. Per ultimi succedano i Datori indietro.
·   Quel degli Alfieri cui la sorte averà eletto sia alla destra.
·   Girata una volta la piazza, le insegne diansi in mano de' Giudici. Nelle livree più solenni, e nelle disfide si consegnino a i Soldati della Guardia del Sereniss. Granduca Nostro Signore, per tenersi ciascuna d'avanti al proprio Padiglione.
·   Pur nelle livree, e Disfide, il Maestro di Campo, colle Trombe, e i Tamburi avanti, vada il primiero, seguito dagli innanzi del suo colore a coppie, precedenti tutti l'Alfiere, il quale colle genti di suo servizio d'attorno porti l'insegna, seguito poi dagli Sconciatori, e Datori: uscendo di così in ordinanza, ciascuna schiera di per se dal proprio Padiglione, giri sulla man destra tutto il Teatro fino al luogo donde prima partì.
·   In luogo alto, e sublime, sì che è veggano tutta la piazza, seggano I Giudici. Siano eletti di comun consenso, né concordandosi, de' proposti dalle Parti in numero uguale, pongansi alla ventura.
·   Al primo tocco della Tromba, che faran sonare i Giudici si ritirino tutte le genti di servizio, lasciando libero il campo.
·   Al secondo, vadano i giuocatori a pigliare i lor posti.
·   Al terzo, il pallaio vestito d'amendue i colori, dalla banda del muro rincontro al segno di Marmo, giustamente batta la palla.
·   Coll'istesso ordine si cammini, sempre, che per essersi fatta la caccia, o il fallo, debba darsi nuovo principio al giuoco.
·   Il Pallaio gli ordini de Giudici prontamente, eseguendo sempre, e dovunque bisogno ne sia, la palla rimetta.
·   Uscendo la palla de gli steccati portata dalla furia de' Corridori rimettasi per terra in quel luogo dond'ella uscì.
·   Uscendo la medesima de gli steccati per mano del Datore, (mentre non sia caccia, né fallo) se i Corridori vi saran giunti in tempo, che potessero al nemico Datore impedirne il riscatto, rimettasi quivi per terra; ma non sendo arrivati in tempo, diasi in mano al Dator più vicino, ed allora i Corridori tornino dentro a gli Sconciatori a' lor luoghi ed ufici, senza perder però l'avvantaggio della piazza già guadagnata.
·   Sia vinta la caccia sempre, che la palla spinta con calcio, o pugno esca di posta fuora degli ultimi steccati avversarj di fronte.
·   Sia sempre fallo, che la palla sia scagliata, o datole a mano aperta, sì che ella così percossa s'alzi oltre l'ordinaria statura di un uomo.
·   Sia fallo eziandio, quando la palla resti di posta fuora dell'ultimo steccato dalla banda della fossa.
·   Se la palla esca di posta fuori dello steccato verso gl'angoli della Fossa, la linea diagonale della piazza prolungata distinguerà se sia Fallo, o Caccia.
·   Due falli, in disfavore di chi gli fe', vagliano quanto una caccia.
·   Vinta la caccia, cambisi posto. Alle disfide nel mutar luogo l'Insegna vincente sia portata per tutto alta, e distesa, la perdente fino a mezzo bassa, e raccolta.
·   Rompendosi la palla da' Corridori, che fossero stati, nell'atto del darle, già fuora degli Sconciatori, s'intenda esser mal giuoco, e da' Giudici si determini ciò, che sia di ragione.
·   Nell'interpretare, ed eseguire i presenti Capitoli, ed in ciò, a che per essi non si provede, sovrana sia l'autorità de' Giudici, e da loro se ne attenda presta, ed inappellabil sentenza.
·   Vincansi le deliberazioni fra loro, colla pluralità de' voti.
·   Un giuocatore per parte, e nella disfida Mastro di campo, e non altri, abbiano autorità di disputare d'avanti a' Giudici tutte le differenze occorrenti.
·   Sia spirato il termine, e finita la giornata allo sparo, che sarà fatto d'un mastio subito sentite le 24 dell'oriuol maggiore.

·   Sia la vittoria di quella parte, che avrà più volte guadagnata la caccia, ed allora le insegne siano dell'Alfiere vincitore: ed in caso di parità ciascuno riabbia la sua.


Come già precedentemente detto, le persone appartengono alle squadre su criterio etnico: io, essendo di madre bianca, sono fiero di appartenere alla gente di Santo Spirito! 

Forza Bianchi!