domenica 8 aprile 2012

Medioevo - La Lotta alle Investiture e la Soluzione Dantesca




vescovo combattente medievale - rievocazione storica

L’Europa cristiana sta vivendo un periodo particolarmente travagliato a livello politico-sociale. Nell’Anno del Signore 1150 circa, decennio più, decennio meno, quando la Lotta per le Investiture movimentava la politica italiana ed europea, si guardava a due poteri: al Papa di Roma e all’Imperatore del Sacro Romano Impero. La questione essenzialmente era la seguente: la concessione dell'investitura imperiale dei regalia (i diritti pertinenti al regno o pubblici) agli ecclesiastici. L’Imperatore reclama il diritto, quindi, di scegliere i vescovi-conte, privilegio richiesto anche dal Pontefice. La lotta fra Papato e Impero ha inizio nel 962 quando Ottone I di Sassonia si fa incoronare Imperatore dal pontefice Giovanni XII: siglarono il “privilegium Othonis” in un momento di difficoltà del Papa, il quale accettò, con questo documento, una condizione di inferiorità: l’elezione dei pontefici necessitava del consenso imperiale. Il fatto condusse ad una crisi che nel 1075 si acuì. Gregorio VII col suo Dictatus Papae ribadì con forza il diritto dello Stato Ecclesiastico di possedere la massima libertà politica. L’Italia per la sua posizione intermedia fra lo Stato della Chiesa e il fulcro dell’Impero si ritrovò in breve tempo ad essere teatro di feroci scontri sia militari che ideologici, anche se l’eziologia del nome degli schieramenti è da ricercarsi da tutt’altra parte. Erano detti infatti Guelfi coloro che appoggiavano il Papato, Ghibellini coloro i quali erano favorevoli all’Imperatore tedesco. I nomi derivano da due casate tedesche, Welfren ( italianizzato in Guelfi) e Waiblingen ( Ghibellini) che dopo la morte di Enrico V nel 1125 lottarono per il trono dell’Impero. I due cognomi non esprimono affatto condizioni ideologiche in sé, ma per gli italiani appoggiare una fazione piuttosto che un’altra aveva un significato politico preciso: mentre i Waiblingen Hohenstaufen non erano affatto disposti a tollerare l’ingerenza della Chiesa nella politica, i Welfren erano sensibili ad un avallo morale del Papato sulle questioni secolari. La vittoria spettò al casato degli Hohenstaufen: venne eletto Imperatore Federico I di Svevia. Nell’arco del XI secolo le città del nord Italia, bramose di liberarsi dai vincoli feudali della Germania, scelsero di appoggiare il Papa per ottenere l’indipedenza. Si può dire generalmente che divennero ghibelline quelle città che speravano in una vittoria imperiale per assicurarsi il posto che si erano conquistate, mentre divennero guelfi quegli insediamenti che aspiravano all’indipendenza e ai privilegi comunali. Nel 1250 si ha la connotazione che tutti noi conosciamo, e le lotte internazionali si espansero alle fazioni cittadine e alle famiglie aristocratiche. Aderire ai Ghibellini significò dunque aspirare ad un dominio universale, mentre i Guelfi erano gelosi delle proprie autonomie e vedevano il Papa come garante dell’autonomia locale. A cavallo fra i secoli XII  e XIII assistiamo al fenomeno delle Leghe politiche di parte Guelfa o Ghibellina; nelle città le fazioni espulse tentarono sempre di riconquistare il proprio ruolo o almeno le proprie case.  Nella fine del 1200 lo schieramento ideologico si arricchì anche di pretese sociali: i Guelfi miravano a combattere le eresie, i ghibellini i privilegi del clero. Nel 1268 la parte Ghibellina entrò in crisi con la morte della dinastia Sveva, e i Guelfi ne approfittarono prendendo così le redini della politica italiana, appoggiati dal re di Napoli e ovviamente dal Pontefice. Ma il conflitto è tutt’altro che finito, perché in Toscana nacquero altre due fazioni all’interno della parte Guelfa, destinate a perdurare: i Bianchi e i Neri. Il tutto ha origine nella Pistoia del 1295 fra i Bianchi, che non escludono un ritorno dell’Imperatore, e i Neri, papalini fino in fondo. Gli schieramenti nacquero all’interno della famiglia Cancellieri fra i figli di primo letto – “I Bianchi” perché più anziani – e quelli di seconde nozze, “i Neri”. I membri più litigiosi dei due gruppi vennero esiliati in Firenze, dove i Bianchi furono accolti dai Cerchi, i secondi dai Donati. Ecco che anche in Firenze assistiamo ad un riassestamento ideologico. Dopo un inizio promettente per i Bianchi, favoriti dalla borghesia cittadina e dai nouveaux riches, i Neri presero il sopravvento grazie all’intromissione del re di Francia Filippo il Bello. Su sollecitazione papale il francese spedì un esercito a capo del quale designò il fratello Carlo di Valois. I francesi entrarono in città senza che i Bianchi opponessero resistenza: era l’anno 1301. Nell’anno successivo i Bianchi furono esiliati come di consuetudine, e fra loro vi era anche Dante, che ricopriva la carica di Priore.


Dante Alighieri, figlio del suo tempo, si inserisce nella contesa che dilaniava la sua città ed espone le sue teorie nell’opera De Monarchia, un trattato in latino diviso in tre libri nei quali espone l’apprezzabilità del potere imperiale come garante della giustizia e la legittimità di un dominio universale. Infatti per il Sommo Poeta l’Imperatore possiede un potere derivato direttamente da Dio.
Nel trattato Dante espone la doppia natura dell’Uomo, diviso fra corruttibilità ( corpo) e incorruttibilità (anima) e quindi fra felicità terrena e felicità ultraterrena: il Papa si dovrebbe occupare di garantire la felicità ultraterrena, all’Imperatore spetta di donare felicità terrena. Il primo libro (capitoli I-XVI) tratta essenzialmente sulla questione della felicità umana, sulla necessità dell’ufficio del potere imperiale e della perfezione dell’umanità qualora segua i dettami del Cielo. Sempre nel primo libro Dante affronta il tema del libero arbitrio e del peccato: egli dimostra che il bene è essere nell’Uno ( platonismo?) e che il peccato è l’allontanarsi dall’uno per cercare i molti. Nell’ultimo capitolo del primo libro Dante esprime l’idea secondo la quale l’unica Monarchia perfetta è stata quella di Augusto Ottaviano dal momento che il popolo ha vissuto in una era di pace. Il secondo libro invece (capitoli I-XI) tratta di un argomento particolare: il ruolo dell’Impero Romano nella Storia e se questa sua imposizione sulle genti fosse legittima o meno. In particolare nell’ultima parte Dante asserisce che Cristo, essendo nato sotto l’Impero Romano, ne sancì il Diritto di governare il mondo. Infine nel terzo libro (capitoli I-XV) disserta  sulla questione se l’autorità imperiale derivi dal Pontefice o direttamente da Dio: dopo una serie di sillogismi Dante confuta l’idea che il Pontefice abbia i diritti di cui si sente portatore; Egli dichiara infatti che il potere dell’Imperatore deriva direttamente da Dio, quindi i due poteri, temporale e spirituale, sono indipendenti e sovrani, ed entrambi legittimati. Pur tuttavia l’Imperatore deve essere un po’ subordinato al papa, così come la felicità terrena è subordinata a quella ultraterrena. “Cesare dunque si rivolga a Pietro con quel rispetto che un figlio primogenito deve al padre, affinché, irradiato dalla luce del padre, possa illuminare egli stesso con più efficacia il mondo.”
Dante asserisce che il Papa è di un gradino più in alto rispetto all’Imperatore, essendo il Vicario di Pietro sulla Terra. Quindi, volendo essere puntigliosi, Dante in effetti non dice forse che il Papa è superiore all’Imperatore, nonostante per tutto il resto del libro non abbia fatto altro che elogiare le pretese imperiali? Ai posteri l’ardua sentenza!

Fonti:
Enciclopedia DeAgostini “Il Medioevo”
“Civiltà” – periodico storico n.3 Settembre 2010