domenica 12 ottobre 2014

La Guerra nel Medioevo


La Guerra era una occupazione sociale costante ( ma anche oggi, dopo tutto, non lo è?) nella vita medioevale. Cosa chiamava alle armi la povera gente di un Feudo? Cosa convinceva due signori locali a muoversi guerra? Perchè due reami entravano in conflitto?


Generalmente, si può dire che l'equilibrio dei rapporti di forza è la chiave per comprendere le motivazioni della guerra medioevale. La volontà di potenza dei Signori è il canale sociale attraverso cui veniva filtrata l'esperienza bellica. Inoltre, la mentalità germanica penetrata nei secoli nell'Occidente, formando la nuova cultura che sarà poi "dell'epoca dei castelli", è quella di una aristocrazia guerriera. Nell'anno Mille particolarmente abbiamo la crisi delle vocazioni guerriere, quando i secondogeniti privi del proprio feudo (per via del diritto ereditario, che consegnava il Feudo al primo figlio maschio) iniziano a radunarsi in bande e a creare scompiglio devastando, depredando e violentando ragazze e donne: non si risparmiano dalle ruberie neppure i luoghi di culto. I chierici, cercando di contenere la violenza dei pupilli nobili, creano le tregue di Dio, ossia dei periodi di pace obbligata, previa scomunica, in concomitanza con le Feste maggiori - Natale, Pasqua, Pentecoste - e con i periodi delle principali fiere annuali. Si sviluppano in questo periodo i diritti di lesa maestà contro i superiori feudali e il diritto d'immunità delle strutture ecclesiastiche. Ovviamente, questi diritti non sempre sono rispettati. 
La Storia ci mostra come queste bande di scapestrati armati fossero presenti soprattutto in Francia e in Germania, territori più "liberi" e meno vincolati dai pericoli di guerra reali, come i confini dell'Impero Bizantino o l'Italia Meridionale, o la Spagna. Infatti in Francia si registrano la stragrande maggioranza di guerre feudali per i diritti privati, come possedimenti acquiferi, zone fertili, città mercantili. Questo << diritto di conquista >> era motivato spesso da ragioni ideologiche - la terra apparteneva al mio trisavolo, il Re l'ha concessa a te, e io me la riprendo - o anche più pragmaticamente economiche: ricchezza reale e bramosia di migliorare la propria condizione. Pur tuttavia, i giuristi del tempo si prestavano anche alla squallida creazione di documenti validi ( ma falsi) di rivendicazione, sotto lauti compensi. Attraverso genealogie semi-inventate, essi ricorrevano a molti artifizi giuridici per affidare a qualche avo quel lembo di terra che il pagatore intendeva conquistare. Così si otteneva un diritto di conquista e un valido casus belli

Per arginare il fenomeno della violenza gratuita, la Chiesa di Roma tentò di adornare la mera condizione di uomo d'armi con uno strato culturale più profondo. Già nel IX secolo in Spagna compaiono le prime hermandad, ossia dei gruppi di guerrieri a cavallo, generalmente nobili o ricchi, dediti alla protezione dei deboli e dei pellegrini contro i Mori, a servizio di qualche cattedrale o confraternita religiosa. L'hermandad di Santiago de Composteila evolverà presto nell'omonimo Ordine Cavalleresco. Venivano incoraggiate le bande armate che prestavano giuramenti d'onore, che si impegnavano nel rimanere in un territorio definito, le confraternite militari.
La Chiesa creò l'ideale del Cavaliere, contrapposto al barbaro uomo d'armi: un uomo pio, devoto ai precetti di Dio, che cerca la gloria sì personale, ma che non esita a difendere i poveri, le donne, i fanciulli. Una ascesi dove la spada e la croce potevano convivere, e creare un santo laicato vissuto nella condizione aristocratica.  Si gettavano così le basi, inconsciamente, sia per l'etica cortigiana sia per la ben più profonda spiritualità Templare. Si può dire che quando il nobile Ugo di Payns si presentò al Pontefice coi suoi fratelli d'armi, proponendo un ordine militare specializzato che si univa alla tonaca, il Papa romano vide incarnato quell'ideale che la classe intellettuale cercava di portare nell'aristocrazia guerriera da almeno un secolo. 

Senza volere in questa sede sviluppare particolarmente la Crociata, che nella Storia della Guerra e del Medioevo segna un punto di svolta sociale, ideologico, politico e spirituale, vogliamo adesso occuparci di una guerra più laica, pragmatica e mossa da obiettivi decisamente più terreni.

Generalmente una guerra iniziava con una razzia, segno evidente che una delle due parti aveva intenzione di prendere possesso dell'altra. La razzia si svolgeva con uomini a cavallo, solitamente, per gli eserciti continentali. La razzia aveva come obiettivo indebolire l'apparato logistico del nemico: ripulire i magazzini, distruggere i villaggi, rovinare i campi, rubare bestie e uccidere gli uomini validi, stuprare le donne per danneggiare anche il morale del nemico. I vichinghi e gli arabi, che attaccavano con la pirateria, avevano sviluppato il raid navale: si arriva, si sbarca, si distrugge e si riparte nell'arco di poche ore. 
La maggior parte delle guerre feudali si concludeva con un assedio. Gli attaccanti solitamente preparavano le macchine d'assedio come arieti per sfondare le porte, catapulte per demolire le mura a distanza, o scale d'assalto per salire sulle mura ed entrare senza distruggere le difese. Nel corso del Trecento, gli eserciti si armeranno anche con cannoni e bombarde, che tuttavia saranno armi molto pericolose e spesso appannaggio di bande mercenarie specializzate in tale armamentario. 
I difensori si organizzano: si preparano le scorte di frecce, si preparano l'olio bollente da rovesciare sui nemici e i secchi di sassi da lanciare sugli assalitori. E' una guerra molto espressiva, ma con pochi morti. Le battaglie fra piccoli feudi vedono in campo poche decine di unità per esercito. 
La Battaglia Campale, che si cercava sempre di evitare, contava un gran dispendio d'uomini, armi, cavalli. Generalmente si combatteva tra eserciti a cavallo supportati dalle rispettive fanterie, o viceversa. I cavalieri, armati dalla testa ai piedi con la cotta di maglia, l'usbergo, l'elmo e i gambali, armati d'ascia, di spada corta e di lancia, con grandi scudi, erano l'aristocrazia che fin dall'infanzia si esercitava nell'arte della guerra; la fanteria era composta dai sudditi dei nobili, chiamati alla corvée della guerra. Generalmente erano i nobili stessi che provvedevano ad armare i propri sottoposti: la potenza di un esercito dipendeva spesso dalle risorse fondiarie del suo comandante. Non mancano però i ricchi borghesi ( mercanti, giuristi, vescovi-guerrieri, artigiani di livello) che si armano da soli: chi diventa cavaliere per ricchezza o per merito, e chi pur rimanendo nella fanteria si barda di tutto punto. 
I poveri partecipavano alla guerra in qualità di tiratori ( arcieri i poveri - i balestrieri erano artigiani o uomini con sufficiente denaro da acquistare un'arma costosa come la balestra ) o di serventi: pulizie, cucina, lavori manuali. I cavalieri al contrario avevano i propri scudieri per la cura dell'animale e della loro persona: ragazzi di fiducia, figli di amici o anche i propri stessi figli, troppo giovani per la guerra viva, ma abbastanza grandi per vederla da lontano. 

Le Città Libere, ossia i Comuni, che non sono feudo ma stato repubblicano, hanno un diverso sistema di reclutamento che va per censo: le categorie di militari si differenziano in quanto ognuno provvede a proprio armamento, ma tutti servono la Città combattendo. Sovente, sono le Confraternite o le Arti di appartenenza ad armare i propri appartenenti

L'esercito era accompagnato da sacerdoti e chierici, sia per la sepoltura dei morti, sia per le necessità spirituali - non scordiamoci che era una società profondamente permeata di spiritualità - e soprattutto nelle grandi guerre fra stati o Sovrani, perfino i vescovi - feudatari, quindi soggetti alla corvèe della guerra - seguivano i propri sovrani. In particolare il vescovo-conte, essendo sia suddito che feudatario a sua volta, offriva il proprio servizio al suo re partecipando con le proprie truppe alla campagna reale.

Nel caso di una lunga campagna militare, sappiamo della vita da campo nel Medioevo: erano tutt'altro che rari il concubinato - con donne rapite nelle razzie - e la presenza ai margini degli accampamenti di un piccolo grande mondo formato da mercanti d'armi, prostitute, sciacalli, disertori e bande mercenarie che si offrivano al pagatore migliore. Malattie a trasmissione sessuale e per via aerea erano frequentissime. 

Riferimenti bibliografici:
La Vita Quotidiana nell'Anno Mille, Fabbri Editori
Templari, Barbara Frale
Firenze nel Medioevo
La Grande Storia delle Crociate, Jean Richard
Rivista "Medioevo"


giovedì 2 ottobre 2014

L'agricoltura nell'anno Mille

Le terre attorno al villaggio erano quasi interamente coltivate. Si coltivava il "grano", che nel Medioevo non intendeva essere solo il frumento, ma anche segale, orzo, avena. Pane e farinata erano l'alimento base che mai mancava: i campi erano preziosi e venivano recintati secondo le assegnazioni, protetti con delle palizzate e sorvegliati costantemente. Si coltivava anche la canapa per farne i vestiti, e se il clima locale era benigno, vigneti e uliveti. Una porzione di campi era invece deputata all'ortofrutta.
La terra smette di essere fertile se viene notevolmente prosciugata per le coltivazioni, pertanto ogni due anni la si metteva a maggese, ossia a riposo: non si coltivava niente per un anno circa. Dopo di ciò, la si ripuliva estirpando le erbacce che, lasciate là, contribuivano a riformare l'humus. Altrimenti per fertilizzare la terra si possono bruciare già le erbacce sovracitate, prenderne le ceneri e cospargere con esse il seminabile. Questa tecnica si chiama "debbio". Il terzo metodo di fertilizzazione è di disperdere lo sterco animale sui campi.

I metodi di rotazione del terreno sono biennale e triennale. Il biennale, che consiste nel dare riposo dopo due anni di sfruttamento, era il metodo comune nell'Europa mediterranea, nel Poitou e nel Mezzogiorno di Francia. In Inghilterra, in Europa centrale e nei paesi scandinavi invece veniva eseguita la rotazione triennale, che consiste in un anno di "grano invernale" seminato in settembre ( grano, farro, segale), in un anno di "grano primaverile" ( avena, orzo) che si semina a marzo - al grano primaverile si poteva anche sostituire con i piselli, le fave o la veccia - e infine un anno di riposo. 
Si cercava ovunque di coltivare anche un vigneto: indispensabile il vino per la Messa, e anche come bevanda, era una delle più diffuse.I vigneti sorgevano spesso in collina presso i fiumi sufficientemente grandi da garantire il trasporto delle botti tramite piccole chiatte. Laon, in Francia, nel XII secolo si meritò l'appellativo di "capitale del vino" per la quantità immensa di prodotto che produceva. 

Per arare, generalmente si usava l'aratro, un attrezzo a mano o a ruote, con una lama in ferro, bronzo o anche in legno nei casi più poveri, che creava solchi nel terreno nei quali poi si gettava la semenza. 
L'aratro è generalmente tirato da buoi, molto lenti, o da cavalli se è ricco. Per mietere, ossia raccogliere il frutto del durissimo lavoro, si usa il falcetto. Vi erano pure esemplari dentellati ( cfr. André de Fleury - racconto dell'empio contadino). 

Si cercava di mietere lasciando la stoppa il più possibile alta, perché quei campi, fino alla semina nuova, saranno proprietà comune e quindi qualsiasi abitante del villaggio potrà passarvi e raccogliere ciò che serve per la sua abitazione ( stoppa per i cavalli o per la capanna), e il campo incolto diventa terreno di pascolo per qualsiasi gregge di qualsiasi pastore. Se un contadino aveva seminato piante foraggere ha diritto, allo spuntare dei frutti, alla prima falciatura: quanto ricrescerà su quel campo sarà ancora una volta proprietà comune. 

bibliografia: La Vita nell'Anno Mille, fabbri editori

lunedì 28 luglio 2014

Firenze - Come fu costruita la Cupola di Santa Maria del Fiore


La maestosa Cattedrale di Santa Maria del Fiore, orgoglio della Città di Firenze in ogni sua epoca, fu iniziata nel 1296 nel giorno 8 settembre. La Cupola era stata prevista più piccola dall'architetto originale, Arnolfo di Cambio; Quando la Città di Siena iniziò i lavori di ampliamento della propria cattedrale, i fiorentini vollero ancora una volta dimostrare di essere i migliori, e ampliarono il progetto con una Cupola di 45 metri, e un tamburo di 13. I lavori sarebbero dovuti essere svolti ad un'altezza di 55 metri dal suolo, un vero problema per l'epoca. Era l'anno 1420. Il progetto fu affidato a Filippo Brunelleschi, un promettente orafo, eccelso alchimista e architetto. Le ampie conoscenze della meccanica possedute dal Brunelleschi gli furono utili per costruire le macchine da lavoro. Le rivalità cittadine pur tuttavia vedevano favorito Lorenzo Ghiberti, altro artista di talento, al quale il Consiglio di Costruzione della Cupola dette il comando dei lavori; Filippo Brunelleschi, adirato per la scelta, si dette malato e senza la sua direzione i lavori si arrestarono. Ghiberti si definì incapace di continuare, fu destituito e Brunelleschi riabilitato come capocantiere. Appena l'altezza dei lavori si fece considerevole, nel 1426, Brunelleschi fece applicare alle impalcature un sistema di contrappesi e balaustre dimodoché i suoi operai non cadessero. La Cupola fu completata dieci anni più tardi, con un solo incidente mortale dovuto allo stato di ubriachezza dell'operaio: il Brunelleschi vietò di consumare alcolici sul lavoro, ed era l'anno 1422. Molto attento ai suoi lavoranti, Filippo Brunelleschi organizzò perfino delle impalcature con dei forni per i cuochi, in modo che i pasti fossero pronti e caldi direttamente sul luogo di lavoro, senza che gli operai scendessero e salissero in continuazione. 

Il segreto di una costruzione così ardua eppure riuscita sta nella tecnica edilizia di Brunelleschi. Egli applicò difatti su una base poligonale la tecnica della cupola a rotazione, sistemando i mattoni a spina di pesce, in modo da formare una elica cilindrica che creasse auto-sostegno. Inoltre, nelle cupole a basi ottagonali se i mattoni fossero stati messi e disposti secondo gli anelli ottagonali, in corrispondenza delle vele si sarebbero creati pericolosi angoli sul letto di posa, nel luogo ove gli sforzi dell'edificio sono maggiori. Per evitare quei pericolosi angoli sui raccordi delle vele, il Brunelleschi genialmente dispose i mattoni sugli otto costoloni della cupola, appartenenti a due vele adiacenti sul piano di giacitura, e ciascuno di questi piani è perpendicolare al corrispondente costolone di spigolo. In questo modo non si vennero a creare i famigerati angoli. Il Brunelleschi costruì una Cupola catenaria, che non necessitava così di rinforzi alla base per bilanciare il peso della costruzione, essendo all'interno un ellisse conico i cui meridiani erano sempre perpendicolari alle rispettive vele e costoloni. La Cupola interna, che regge tutta la struttura, ha uno spessore di 2, 20 metri; la Cupola esteriore protegge dalle intemperie quella interna. Nel 1436 Brunelleschi vinse il concorso per la decorazione della Cupola, dotandola così della Lanterna. 

La Cattedrale di Santa Maria del Fiore, con la sua cupola di 45 metri, è stata a lungo la Chiesa più grande della Cristianità. Adesso è la quarta in ordine di grandezza: San Pietro ( Roma), San Paolo ( Londra), il Duomo di Milano e infine di nuovo lei, in cima alla classifica. Un'opera imponente, costruita da un genio che, coi mezzi dell'epoca, ha costruito un gioiello che ancora oggi toglie il fiato, ogni volta che ci passiamo sotto. 

martedì 1 luglio 2014

Sighisoara nel Basso Medioevo e i "Sassoni di Transilvania"




Lo storico romeno Matei Cazacu, nella sua biografia sul Duca di Valacchia Vlad Tepes, detto Dracula ( ossia "il demone"), ci racconta anche di una delle etnie che popolavano la regione della Transilvania. Tra quelli che hanno colpito maggiormente la mia attenzione, tanto che ho voluto farci un articolo, sono i Sassoni di Transilvania, originali della Franconia Occidentale, stanziatisi nell'Alto Medioevo in questa regione, e nel Quattrocento ancora culturalmente indipendenti. 


Sighisoara: un borgo mercantile


Sighisoara era una delle città più importanti, assieme a Sibiu e Brasov, anche se la meno popolata fra queste, con appena duemila persone. Sibiu contava quattromila abitanti, Brasov seimila; questo è quanto emerge nel primo censimento effettuato nel XV secolo. Sighiosara aveva due cinte murarie, una per l'acropoli e una per la città bassa. Il governo della città era tripartito tra un Konigsrichter, ossia il Giudice della Stulh ( la confederazione delle città sassoni romene), tra il Sindaco e un Consiglio di Anziani. In città si parlava un dialetto germanico comune a trentacinque villaggi e borghi della regione,  raggruppati in tre capitoli ecclesiastici. Sighisoara era un luogo fortuito,  sorto sulla strada di collegamento tra Sibiu, il paese degli Szekely e la Valle di Mures, ricca di vigneti e terre coltivate: Sighisoara era una città mercantile, ricca di Corporazioni. Tra quelle segnalate troviamo calzolai, bottai, fabbri, tessitori, produttori di speroni, guantai, carradori, pellicciai, fonditori di campane, orafi, carpentieri, macellai, tornitori, muratori. La Città teneva il privilegio di poter tenere due fiere grandi all'anno, una prima di Quaresima e una la domenica dopo Pentecoste. Dal 1433 in poi i mercanti di Sighiosara ottennero privilegi mercantili in Moldavia.
I rampolli delle famiglie abbienti studiavano all'estero: le università di Vienna e Cracovia, nei registri che vanno dal 1377 al 1530, segnalano ben novantacinque giovani provenienti da Sighisoara. Il piccolo Dracula, che soggiornava nei suoi primi anni di vita proprio a Sighisoara, vide la costruzione della Chiesa di San Nicola ( 1345-1515) nella Città Alta e il Lebbrosario con la chiesetta annessa nella Città Bassa. L'attività edilizia nel Quattrocento era febbrile. 
Un dignitario ungherese in viaggio, Antonio Verancsics, nel Cinquecento ci ha regalato la descrizione dei costumi di questo popolo:
<< Hanno mantenuto fino ai nostri giorni costumi e lingua dei loro antenati. (...) i furti sono a loro ignoti; i cibi che mangiano sono sostanziosi, ma non raffinati. Sono molto dediti alla casa e desiderosi di accrescerne i beni e gli oggetti molto più che ogni altro popolo di questa provincia, e poiché non bramano i beni altrui, si accontentano tuttavia dei propri. Sono così desiderosi di costruire, di coltivare la terra e piantare vigneti, che nessun'altra terra in Transilvania è tanto bella e ricca e fertile di quella abitata dai Sassoni. I re d'Ungheria, vedendo questo, li hanno premiati con concessioni urbane e hanno permesso loro di circondare le proprie città con le mura. Oltre al censo abituale, viene loro chiesto del denaro ogni volta che i re lo desiderino, ed essi prontamente pagano volentieri, per nulla attaccati al denaro. (...) combattono a piedi, sono molto forti dietro le mura dei loro borghi, ma non resistono nelle battaglie in campo aperto. E' per questo che preferiscono partecipare ai conflitti col denaro, piuttosto che mandare le truppe. >>

L'Italiano Andrea Gromo ci informa che nel Cinquecento vi era una scuola cittadina sulla collina, offerta per tutti i bambini e pagata dal Comune stesso.

L'abbigliamento dei Sassoni

L'abito degli uomini è identico a quello degli ungheresi, ma con mantelli e tuniche più lunghi e ampi. Alcuni tra i sassoni non esitano a portare le loro pellicce pure nelle estati, anche col gran caldo, foderate di volpe o di lupo. I sacerdoti portano una veste color porpora, una cintura blu o rossa e sopra tutto ciò un lungo e ampio mantello che chiamano << reverenda >>. (1) L'abito delle donne non è molto appropriato alle ricorrenze: i vestiti sono stretti, impacciano i movimenti, e hanno pieghe solo lungo la schiena. Le donne lasciano scoperte la nuca e il collo fino alle spalle. Si coprono il petto con grandi placche d'oro e d'argento decorate con pietre preziose, ma sono così pesanti che appena queste signore si inchinano un po', scoprono già il seno, risvegliando per queste ragazze desideri illeciti o senso di vergogna in chi le guarda. Non si adornano le teste nè con ghirlande nè con nastri, ma portano i capelli sciolti. Indossano sovente un diadema di seta o d'argento, simile alle placche di cui sopra. Le donne maritate portano abiti lunghi e scuri, larghi e senza pieghe. Esse adoperano lunghi mantelli di pelo di coniglio non foderati, non ardiscono di indossare berretti nè di seta nè di pelliccia, ma usano un copricapo di cotone rosso o bianco. Inoltre, le vedove e le donne anziane si coprono il capo con un velo di cotone assai leggero. 

D. Frolich, Medulla Geographiae practicae

(1) ciò li identifica come ortodossi. La reverenda ancora oggi in lingua rumena è l'abito ecclesiastico ortodosso.

Rapporti con il mondo


I Sassoni transilvani erano posti all'interno del Regno d'Ungheria come "Confederazione" ( Universitas Saxorum ) composta da Nove Stuhle ( distretti) e dai due distretti indipendenti di Brasov e Bistrita. I rappresentanti delle Stuhle e i dignitari amministrativi e giudiziari si riunivano una volta l'anno, il 25 novembre, per deliberare su questioni di interesse generale e comune. Gli obblighi dei Sassoni verso gli Ungheresi erano i seguenti: il pagamento della tassa annuale, entro il giorno di S. Martino; pagamento della decima ecclesiastica; obbligo di fornire un numero fisso di soldati per l'esercito del Re - riscattabile in danaro; obbligo di fornire vitto e alloggio al Voivoda ( principe ) di Transilvania, più tardi esteso anche ai dignitari stranieri. Il Re d'Ungheria al contrario aveva l'obbligo di non porli sotto nessun nobile. Il diritto di costruire sempre le mura dei propri insediamenti comportò anche la nascita dei monasteri fortificati, sopratutto le chiese di villaggi al confine, denominate Kirchenburgen, con una architettura caratteristica che le identifica come sassoni. 

riadattato da: "Dracula" di Matei Cazacu

giovedì 20 febbraio 2014

La vita al castello di un Signorotto locale nell'Alto Medioevo

Si sa, chi lavora è il servo della gleba, colui che suda per il pane quotidiano, che vive se gli sta bene in case in pietra se siamo al nord, in laterizi se siamo al sud, se invece gli va male, in capanne di paglia o legno. Da chi dipende la vita del servus? dal dominus, dal Signore. Se prendiamo il periodo a cavallo con l'anno Mille, la situazione è alquanto interessante. La frammentazione feudale è all'apice, e offre occasioni a chi sa maneggiare le armi: ci si può fare anche da soli, se non si ha il sangue, ma se si sa combattere. Una ricerca francese del 1904 (1) offre una panoramica su 10'000 castelli, i quali distano tra loro non più di dieci chilometri. Si desume che i vassalli casati ( ossia "alloggiati", col proprio castello) fossero veramente tanti. 

Presupposti per la Signoria
Il Nobile, si sa, non cade dal cielo. Tramite l'investitura  - la quale sarà codificata più tardi, ma sicuramente doveva avvenire da molto tempo prima del XII secolo - un soggetto che ha reso importanti servigi al suo superiore - sia esso un grande vassallo a sua volta, o proprio al sovrano - viene insignito di un titolo più o meno ampio, che va dal semplice "cavalierato", ossia la possibilità di figurare a corte e di far parte dell'esercito in qualità di cavaliere, ad un titolo onorifico o reale, che comporta il governo di un territorio più o meno grande. In questo articolo ci occuperemo dei piccoli feudatari, non volendo scomodare Duchi di nessuna sorta, e neppure conti o marchesi. Generalmente le parentele di sangue hanno il gratificante effetto di essere nobili fin dal concepimento, e tutto ciò comporta privilegi ( o problemi ) di varia natura. Altrimenti, egli può esser divenuto signore per i servizi resi a importanti autorità, e lo abbiamo già detto. Ancora, egli può essere riconosciuto dopo essersi faticosamente creato il "suo" spazio: a capo di una banda, si era trovato un terreno incolto, lo aveva conquistato e vi aveva fatto valere i suoi diritti. Col tempo si era fatto riconoscere da un importante padrone della zona, il quale così lo ammette al rango di vassallo. Le armi in questo periodo fanno molte differenze. La "vestizione" del cavaliere avveniva dopo una cerimonia religiosa, nella quale venivano benedetti gli stendardi, le armi e il signorotto stesso dall'autorità ecclesiastica, alla presenza dei suoi pari, dei suoi superiori e del popolo. 

Il Castello e la sua economia

Immaginiamoci una famiglia sconosciuta, senza andare a cercare personaggi storici. Questo signorotto possiede il suo castello, volentieri in legno più che in pietra, circondato dal suo terreno diretto, nel quale magari vi è un villaggio e gli edifici di uso comune quali il forno, il pozzo, il mulino e i magazzini, che sono di sua proprietà e i quali sono soggetti a tassa d'uso: in altri termini, il servo che vuole usare un edificio comunitario deve pagare al signore un affitto. Accanto al terreno diretto abbiamo, se il possedimento è molto grande, delle porzioni di territorio affidate a contadini particolarmente agiati, i fittavoli, i quali a loro volta faranno lavorare i braccianti. Questi contadini sono entrambi obbligati a pagare la decima, ossia la percentuale sul raccolto, e a fornire prestazioni di validità comunitaria - costruzione o riparazione di infrastrutture, cinta muraria, lavori di varia utilità pubblica - le cosiddette corvée, che tuttavia risultavano molto onerose. L'agricoltura seguiva il ritmo stagionale e la rotazione triennale nei paesi mediterranei, quella biennale ( cereali un anno, pascolo/maggese il secondo) nei paesi nordici. 

la piccola corte del feudatario


Ogni signorotto che si rispetti doveva avere dietro di sè un séguito. Nel medioevo, l'uomo senza importanza non aveva nessuno accanto. Le donne di casa, moglie e figlie, non erano affatto confinate in ginecei di alcuna sorta, ma tutto sommato erano libere. Seguivano i suoi "fidi" come il comandante delle guardie, lo scrivano - il quale fungeva da segretario, da contabile e da molti altri ruoli culturali - e lo scudiero, che spesso era il figlio di una famiglia nobile alleata, e il maniscalco, ossia il guardiano dei cavalli, che presso le corti regie era una figura tenuta in gran conto. Il siniscalco era invece il servitore più anziano, una sorta di maggiordomo.
Comparivano poi, se si era fortunati, qualche chierico istruito, un erborista o un sedicente medico, uno studente di passaggio che aveva deciso di fermarsi; un poeta, un giullare. Le aule dei castelli erano comunque un ambiente vivo solamente di sera, quando calava la luce vesperale, perché la vita medievale si svolgeva all'aperto. Il Signore andava a caccia, col falcone o con la lancia, a cavallo; partecipava a tornei nelle signorie vicine o ne ospitava una egli stesso; si muoveva spesso in guerra, andava in pellegrinaggio se era pio, altrimenti andava in città regie o episcopali a combinare affari o a cercare il favore dei potenti, se era uomo di mondo. Sul mobilio medievale, sono rimaste davvero pochissime tracce, essendo di legno. Per quanto riguarda gli ospiti, alla tavola del nobile potevano benissimo esserci figli di altri nobili che egli stesso si era preso in carico come guardiani e scudieri, per istruirli; del resto, i suoi stessi figli erano coppieri o in affido presso altre famiglie con le quali vi erano vincoli d'amicizia o di sangue. 

Il feudo e la Chiesa

Una situazione particolare. Il feudatario considerava il sacerdote che predicava nel proprio territorio come un proprio suddito, ma quest'ultimo spediva le proprie decime alla propria sede episcopale, quindi spesso convergevano opposti interessi sul curato di villaggio. Senza dubbio i potenti ecclesiastici erano signori essi stessi, e disponevano di eserciti personali al pari dei laici. Ma se parliamo del sacerdote comune, ancora nel Mille sposato e quindi poco propenso ai viaggi, i rapporti erano di sana sudditanza. Il sacerdote era un servo del proprio signorotto, ma quest'ultimo cercava ad ogni modo di non scontentarlo, anche perché poteva incorrere in sanzioni che andavano dallo sborso di denaro alla scomunica, qualora il suddetto feudatario fosse eretico o desse modo di dubitare. La Chiesa certo benediva il ruolo del nobile, e aveva premura che i suoi figli ricevessero educazione. 

Il Signorotto e la guerra

La guerra è l'occupazione preferita del nobilotto medievale, secondo molte cronache dell'epoca. Il Signore poteva chiamare a raccolta tutti i suoi sudditi. La cavalleria era composta dai membri ricchi del feudo, che provvedevano da soli al mantenimento del cavallo, delle armi e dell'entourage che serve a tenere un tenore così alto: servitori, scudieri, maniscalchi, attrezzature per la pulizia delle armature, e quant'altro. La maggior parte della truppa, la fanteria, era composta dalla servitù e dalla "middle class" dell'epoca, ossia dagli artigiani o dai maestri di qualche attività, che grazie alle proprie entrate riuscivano a garantirsi un'arma decente e una protezione. Il soldato che proviene dalla classe dei servi, equipaggiato dal Signore stesso, solitamente aveva armi di seconda mano e armature leggere, o veniva messo nei tiratori. Le macchine da guerra costavano molto ed erano appannaggio del feudatario molto ricco, che le offriva all'armata. 

L'abbigliamento signorile e la cucina 
Concludo l'articolo sul signorotto laico con una piccola panoramica sugli abiti e sulle abitudini culinarie. Innanzi tutto, cosa si mangiava? Carne, carne e carne, cotta prevalentemente alla griglia o su rudimentali piastre, o su spiedini; la carne molto spesso era cacciata dal Signorotto stesso: tutto ciò tranne che in Quaresima o negli altri periodi digiunali prescritti dalla Chiesa, nelle quali si mangiava il pesce. Anche il tipo di pane era diverso: era bianco, di farina fine, mentre il volgo solitamente mangiava pane nero e il pane bianco era quello delle feste. L'uso ordinario di bevande alcoliche, quali vino e birra, per ogni pasto e non solo per le occasioni, è pure uno dei punti del menù di un aristocratico medievale. A concludere segnalano qualche dolce, prevalentemente a base di miele. Le spezie, che dopo le crociate saranno talmente diffuse da essere acquistabili da tutti, sono ancora invece piuttosto ricercate nell'anno Mille e arrivano solo alla tavola dei potenti. Formaggi, legumi, frutta e verdure di stagione accomunavano ricchi e poveri. Si mangiava con le mani, la forchetta ancora non era di moda; per tagliare i bocconi alla tavola dei signori vi era un apposito servo, che faceva i pezzetti in cucina, e  la carne era servita già spezzettata su ampie fette di pane o su focacce: questo identico modo di servire l'ho visto fare ancora oggi ad un ristorante etiope, dove sono bandite le forchette. Per quanto concerne l'abbigliamento, Rodolfo il Glabro ci  propone la seguente descrizione, per la verità non molto rosea ("indecenti" sono gli abiti), dell'abbigliamento dei signori che arrivarono a rendere omaggio al sovrano, provenienti dalla Aquitania, al seguito della regina Costanza. Tuniche corte dalle maniche pendenti con orli ricamati, con brache strette e fatue; le calzature sono dotate di "orecchie" che bordano i calzari, e infine indossano una cintura talmente stretta che accentua in modo ambiguo il posteriore. E parliamo di maschi: devo dar ragione al buon monaco Rodolfo, il quale aggiunge che oramai tutti in Francia e anche in Borgogna seguono queste mode a dir poco "piene di vanità". 
A quanto pare capelli lunghi, barba non rasata e tuniche lunghe erano la moda preponderante nell'Alto Medioevo al contrario un po' ovunque, e una certa filmografia ci ha tramandato questo genere di Medioevo. Diamola per buona. 

fonte:
La vita quotidiana nell'anno mille - Fabbri Editori
(1) effettuata da Camille Enlart su tutta la Francia.

giovedì 9 gennaio 2014

Il Sant'Uffizio della Chiesa di Roma: l'Inquisizione tra storia e mitologia




Veniamo subito ad un primo punto. Che cosa viene in mente appena si parla di Inquisizione? Viene in mente il rogo, la morte per rogo. Nell'immaginario popolare si pensa che i tribunali dell'Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell'inquisitore finivano al rogo. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica. Innanzitutto, va precisato che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo. Fu uno dei più grandi avversari della Chiesa Cattolica e del Cristianesimo, l'imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l'impero (1231-2) - e lui era la massima autorità dell'impero e poteva farlo, allora, - l'eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. Dunque, è vero che quando il tribunale dell'Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, né era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio secolare della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza. Detto questo, entriamo un pò nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L'esame dei dati ci indica che i tribunali dell'Inquisizione furono estremamente benevoli, furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l'esempio di Bernardo Guy, che ha esercitato con una certa severità l'ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l'elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci - 9 pellegrinaggi - 143 servizi in Terra Santa - 307 imprigionamenti - 17 imprigionamenti platonici contro defunti - 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti - 69 esumazioni - 40 sentenze in contumacia - 2 esposizioni alla berlina - 2 riduzioni allo stato laicale - 1 esilio - 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato - 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati. L'Inquisizione di Pamiers ci fornisce i seguenti dati: dal 1318 al 1324 furono giudicati 98 imputati. Due furono rilasciati - per 21 manca ogni informazione e per questo si pensa che non subirono condanne - 35 condannati alla prigione e 5 abbandonati al braccio secolare. I rimanenti 25 furono assolti. Queste proporzioni valgono anche per quella considerata la più terribile delle Inquisizioni, quella spagnola. Lo storico danese Gustav Henningsen ha analizzato statisticamente 44.000 casi di inquisiti tra il 1540 e il 1700 e ha rilevato che l' 1°/o fu giustiziato. L' 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell'Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: "La vellutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari"'. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’Inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell'immaginario popolare. Almeno noi cattolici evitiamo di farci raggirare da essa. La Tortura Veniamo ad un secondo punto. Dopo il rogo, appena si parla di Inquisizione, l'altra cosa che viene in mente è la tortura. Sappiamo che la tortura veniva applicata dai giudici inquisitori. Vi erano precise disposizioni ecclesiastiche che stabilivano la liceità di costringere l'Inquisito a confessare la sua colpa. La procedura inquisitoriale ha fatto ricorso alla tortura. Essa fu ordinata con la bolla Ad extirpanda di Papa Innocenzo IV il 15 maggio 1252. Leggiamo il passo di questa bolla che ci interessa: "II podestà o il rettore della città saranno tenuti a costringere gli eretici catturati a confessare e a denunciare i loro complici". Ora, di solito i denigratori dell'Inquisizione si fermano qui. E noi restiamo senza parole. Ma si dimenticano di dirci che nella stessa bolla si precisa che la tortura degli imputati non doveva "far loro perdere alcun membro o mettere la loro vita a repentaglio e, assolutamente, non doveva prevedere perdita di sangue". Dunque, si prevede una tortura, ma una tortura che non può provocare mutilazioni, non può far morire il torturato. E non solo. Si prevede anche che la tortura non poteva durare, di regola, più di 15 minuti, che si poteva applicare una sola volta, che non poteva essere ripetuta e che la confessione così ottenuta non aveva alcun valore ai fini del processo se non era confermata dall'imputato dopo due giorni e in condizioni normali. Ma fermiamoci un momento a riflettere. Ci rendiamo conto che queste disposizioni ecclesiastiche riguardanti la "tortura" avrebbero fatto sorridere i professionisti della tortura del nostro secolo? Le testimonianze di coloro che sono finiti sotto tortura dei nazisti o dei loro degni compari comunisti ci hanno descritto veramente che cosa è la tortura e chi ha ascoltato queste testimonianze si accorge subito che la tortura prevista dalle procedure inquisitoriali è semplicemente dilettantesca. Ma andiamo avanti. Sappiamo che la tortura fu applicata con somma cautela e solo in casi eccezionali. I Papi ripeterono più volte che la tortura non poteva essere spinta fino alla perdita di un membro e ancor meno fino alla morte. Si poteva applicare solo quando tutti gli altri mezzi di investigazione erano stati esauriti. Ancora una cosa: non poteva decidere arbitrariamente l'Inquisitore, magari troppo ansioso della ricerca della verità. Doveva esserci anche il parere favorevole del vescovo, e spesso vescovo e giudice inquisitore non andavano d'accordo. Oggi abbiamo informazioni precise su quante volte venne applicata la tortura: -nelle 636 sentenze iscritte nel registro di Tolosa dal 1309 al 1323, la tortura fu applicata una sola volta. -A Valertela, dal 1478 al 1530 si celebrarono 2354 processi. La tortura si applicò in tutto 12 volte. Come si vede da questi dati, non solo la tortura era estremamente più leggera di quelle che la nostra epoca, che non è un'epoca cristiana, ha escogitato, ma veniva applicata raramente, praticamente quasi mai. Le Garanzie Veniamo ad un terzo punto. Quando parliamo di Inquisizione si pensa sempre a giudici il cui potere sarebbe stato così totale, così assoluto, così insindacabile che può essere paragonato a quello esercitato nei moderni sistemi totalitari. Ora, anche in questo caso bisogna sfatare questa leggenda. Non è affatto vero che i giudici inquisitoriali fossero onnipotenti e che, di conseguenza, l'imputato non avesse alcuna garanzia di un equo processo. Dobbiamo subito precisare che gli inquisitori erano costantemente controllati. Papa Innocenzo IV (1246) e papa Alessandro IV (1256) ordinano ai provinciali e ai generali dei Domenicani e dei Francescani di deporre gli inquisitori dei loro ordini che, a causa della loro crudeltà, avessero provocato proteste popolari. Come si vede, il papa del tempo teneva conto dell'opinione pubblica e ordinava di punire il giudice inquisitore che avesse provocato proteste popolari e fosse andato contro la Parola. Non solo. Al Concilio di Vienna, papa Clemente V (1311) fulminò di scomunica - scomunica da potersi togliere solo in articulo mortis e sotto riserva della riparazione del danno - l'Inquisitore che avesse approfittato delle sue funzioni per ottenere guadagni illeciti e per estorcere agli accusati somme di denaro. Andiamo avanti. I Vescovi avevano l' obbligo di segnalare al Papa tutti gli abusi che venivano commessi nel corso della procedura e di denunciare i colpevoli. Lo stesso obbligo era imposto a tutti quelli che, prestando aiuto agli inquisitori, erano in ogni istante testimoni dei loro atti. Capitò anche che i vescovi di Reims e di Sens avvisarono il Papa che Robert La Bougre, un domenicano, era un inquisitore crudele. Roma indagò, questo Inquisitore viene destituito e addirittura incarcerato (1239). Altro che onnipotenza ! Altro che potere insindacabile dei giudici inquisitoriali. Questa leggenda va sfatata.

Bibliografia
Christopher F. Black Storia dell’Inquisizione in Italia